Vogliamo che i nostri figli siano le prime ballerine e che non si

 stanchino mai di stare sulle punte. Dov’è finito il divertimento?

 LETTERA APERTA

di Nicola Palladino (1987)

 

Cari genitori (la confidenza nasce dall’essere colleghi in quanto a figli), so bene che la nostra è fatica da galeotti. Fatalmente una condanna d’amore ci spalma nel cervello l’immagine dei nostri ragazzi. Dovunque siamo, qualunque cosa facciamo.

I figli so’ piezz’ ‘e core”, sospirò Eduardo. Senza un refolo di poesia dico che sono anche capaci di farti il cuore a pezzi. Dipende da loro e da noi.

Di sicuro c’è che nei nostri riguardi furono diversi la cura, l’atteggiamento, non l’affetto, con cui i “vecchi” ci lanciarono sulle montagne russe della vita. Ruvidi come carta vetrata ci accompagnarono, con la mano stretta, solo fino al primo dosso e poi dissero: “Andate!”. E siamo andati.

Ci hanno seguito da lontano, senza farsi vedere. Bene o male ce la stiamo cavando: abbiamo poco da rimproverargli.

Noi, invece, abbiamo infilato nella prole una sonda dritta al cuore, come palombari scivoliamo nelle sue vene, ne spiamo il sonno, ne decodifichiamo i sogni, le regaliamo la carta topografica dei nostri desideri.

Nel tentativo di colmare quello che definiscono il “generation gap”, vogliamo incontri ravvicinati fino alla sovrapposizione per capirli e anticiparne i passi, per far aggallare le motivazioni, per innescare gli incentivi. Vogliamo essere il propellente di un missile che buchi il cielo di un’ambizione luciferina e, al di là di ogni barriera, colga l’obiettivo più alto. Finché possiamo, li lasciamo liberi di pensare e di agire assolutamente come noi vogliamo che facciano. E noi vogliamo spesso cose idiote e facciamo professione di imbecillità.

Il bambino non è più un investimento in fatto di umanità, una polizza in direzione di un futuro con meno affanni, ma un profitto per incrementare il nostro palmares di genitori avventurati, di lungimiranti pigmalioni.

Nemmeno lo sport si affranca da queste intenzioni dolorose. Dice Benjamin Spock, il più famoso pediatra del mondo ed ex medaglia olimpica di Parigi: “Mi arrabbio quando sento dire che un bambino è naturalmente portato a competere, a sapere se è arrivato primo o ultimo, ad odiare il su avversario. Falsità. Il bambino vuole divertirsi, provare soddisfazione. Ed è totalmente fuori luogo l’attenzione che noi riserviamo ai vincenti, a chi primeggia, ai Rambo esistenti nel mondo”.

So che nel mondo esiste la lotta ad oltranza, la competizione, ma forse nei nostri figli certe realtà non vanno incoraggiate ma combattute. Li educhiamo ad un mondo cinico e spietato per attrezzarli alle piccole guerre quotidiane. Non so se un bambino cresciuto con molte paure ed infiniti stress sarà più capace a fronteggiare questi stati emotivi. Forse no: sarà sicuramente più teso ed aggressivo. Ma a noi poco importa. Vogliamo che i nostri figli siano le prime ballerine e che non si stanchino mai di stare sulle punte. Dov’è finito il divertimento?  Scesi dalla montagna della nostra esperienza, abbiamo consegnato loro il decalogo: siate primi in tutto: super a scuola, super nello sport. E lo sport, che è invece lo sponsor impagabile di ore liete, disintegra in tal modo, i gesti mirabili, la fantasia che ogni ragazzo ha dentro di sé. Soldi e successo, come l’idolo di Aronne!

In nome di questi dei crocifiggiamo, in sale locuste, facendo prepotenza al loro corpo e alla loro intelligenza, altre qualità, altre capacità che potrebbero certamente aiutarli ad essere più ricchi “dentro” e più disposti e pronti a capire il mondo e la gente che li circonda.