LA SU E GIÙ CAPOVOLTA

Ho 35 anni sulle spalle e 36 Su e Giù nelle gambe.

L’ho percorsa in passeggino, tra le braccia di mia madre e mano nella mano ai miei nonni; con amici, da solo, con mia moglie e con mio figlio; ho vinto e sono arrivato ultimo, ne ho parlato e scritto e credevo di conoscerla come pochi altri… fino a domenica!

Si, perché quest’anno ho scoperto una verità sorprendente: il verso giusto per correre la Su e Giù non è quello suggerito dalle frecce!

Per carità, non fraintendetemi: avanzare tutti assieme, cavalcare l’onda che avanza lungo il Corso per riversarsi giù come cascata, dopo un rapido mulinello color tartan, fino alle ombre del Fossato Cupo, e poi risalire come geyser lungo le scalinate del Centro storico prima di sfociare placidamente ai piedi di San Giorgio, non ha prezzo. Ma risalire il flusso, percorrere all’inverso il torrente umano che scorre, interminabile, verso lo sbocco finale, è stata un’esperienza illuminante.

Si, perché a seguire il gruppo si vedono spalle, glutei, nuche e, se va bene, profili abbozzati. Andando controcorrente, invece, si incontrano i volti, centinaia, migliaia, nelle cui espressioni non vi sono i solchi scavati da una routine spesso frenetica. Sono i sorrisi che ti sorprendono, di continuo. Sono quelli dei bambini che scappano via appena il controllo vigile dei genitori viene meno, quelli di ragazze che si scambiano confidenze audaci; sorrisi di perfetti sconosciuti che condividono l’adrenalina dell’affaticamento muscolare.

A pensarci ora, prendendola per il verso sbagliato, la Su e Giù si manifesta per quella che in fondo è: una migrazione capovolta, in cui ad attenderci al traguardo sono solo una medaglia, un pacco regalo e una pacca sulla spalla. Non è la necessità di arrivare a guidare i nostri passi: lo scopo autentico  è il viaggio stesso, e me lo hanno svelato domenica millemila volti.

Francesco Palladino

18/11/2018